(A cura dell’Avv. Prof. Luciano de Rensis)
Cassazione penale, sez. I, sentenza 03/07/2018 n° 29832
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SARNO Giulio – Presidente –
Dott. FIORDALISI Domenico – Consigliere –
Dott. BINENTI Roberto – Consigliere –
Dott. CENTOFANTI Francesco – rel. Consigliere –
Dott. CAIRO Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
A.H.A.M., nato il (OMISSIS);
A.R.M.H., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 02/05/2017 della CORTE APPELLO di CATANIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. FRANCESCO CENTOFANTI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. FODARONI MARIA GIUSEPPINA, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Catania confermava la declaratoria di penale responsabilità di A.H.A.M. e A.R.M.H., già affermata dal G.i.p. del locale Tribunale all’esito del giudizio abbreviato, in ordine al delitto di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 3, lett. a), b), c) e d), e comma 3-bis, per avere essi – nelle rispettive qualità di comandante dell’imbarcazione, e di assistente del comandante – effettuato il trasporto dall’Egitto in Italia di 277 cittadini, non appartenenti all’Unione Europea, con le aggravanti di aver commesso il fatto in tre e più persone, in relazione a cinque o più persone, di aver esposto a pericolo la vita e l’incolumità dei migranti e di averli sottoposti a trattamenti disumani. Era in sentenza esclusa la sola aggravante del fine di profitto, specificamente riferibile agli imputati, traghettatori ma non organizzatori della traversata; e la pena principale era conseguentemente rideterminata in cinque anni e quattro mesi di reclusione, e 2.884.000 Euro di multa, per ciascun imputato. L’imbarcazione di cui sopra era stata soccorsa in acque internazionali, trovandosi in precarie condizioni di navigazione, da un’unità navale svedese il (OMISSIS), e aveva fatto ingresso la mattina successiva nel porto di (OMISSIS). Gli imputati erano stati identificati, nei ruoli di cui sopra, da alcuni dei soggetti trasportati, mediante riconoscimento fotografico. La Corte territoriale, decidendo in ordine ai punti oggetto di gravame, confermava la giurisdizione dello Stato, riteneva la configurabilità del reato sotto il profilo oggettivo e soggettivo, pronunciava sulle aggravanti nei termini riferiti e confermava il diniego delle attenuanti generiche.
2. Ricorrono per cassazione gli imputati, tramite il comune difensore di fiducia, sulla base di quattro motivi.
2.1. Il primo di essi deduce – in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), – la carenza della giurisdizione italiana. L’azione degli imputati, si assume, si sarebbe conclusa in acque internazionali, allorchè, prima del salvataggio da parte della Guardia costiera svedese, l’imbarcazione sarebbe stata avvicinata da altro scafo mercantile, disposto a prendere i migranti a bordo per soccorrerli e condurli a Malta; e questi ultimi, senza alcun intervento attivo degli imputati medesimi, avrebbero rifiutato. Questa circostanza segnerebbe una “soluzione di continuità”, tale da impedire l’applicazione dell’art. 6 c.p., e varrebbe da sè anche ad escludere il preteso stato di necessità in rapporto al successivo trasbordo in Italia, da cui la sentenza impugnata, tramite il ricorso alla figura dell’autore mediato, aveva tratto la conseguenza che il reato si fosse, rispetto agli imputati, ivi concluso. In ogni caso l’azione di salvataggio era imposta da precise norme di diritto interno italiano, ed internazionale, e pertanto opererebbe nella specie la diversa scriminante dell’adempimento del dovere, di natura prevalente, sicchè rispetto agli esiti di tale azione sarebbe da escludere ogni ipotesi di concorso degli scafisti.
2.2. Il secondo motivo deduce – in relazione sempre all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), – l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12. Nel testo vigente dal 2002, l’incriminazione, delineata da tale disposizione, riguarderebbe non la mera condotta di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma quella, idonea allo scopo, volta a procurare l’ingresso illegale dei migranti. Dalla stessa sentenza impugnata si ricaverebbe che i migranti furono abbandonati in acque internazionali, su una barca ingovernabile ed alla deriva, senza strumenti tecnici a disposizione. Essi non sarebbero stati in condizione di arrivare in Italia, senza l’intervento di terzi, diversi dagli scafisti, ai quali sarebbe al più imputabile un’azione favoreggiatrice, penalmente indifferente.
2.3. Il terzo ed il quarto motivo deducono – in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle ritenute aggravanti, che non sarebbe stata affatto argomentata, ed in ordine al diniego delle attenuanti generiche, sorretto da giustificazioni apparenti ed in contrasto con gli elementi favorevoli emergenti dagli atti.
Motivi della decisione
1. I primi due motivi di ricorso, tra loro connessi e da esaminare congiuntamente, sono manifestamenti infondati, perchè le questioni giuridiche con essi poste sono state già affrontate e risolte dalla giurisprudenza di legittimità, dalla Corte territoriale opportunamente richiamata, e nessuno degli argomenti addotti è in grado di determinare il superamento degli indirizzi già affermati. In punto di giurisdizione questa Corte ha ripetutamente affermato (da ultimo, Sez. 1, n. 20503 del 08/04/2015, Iben Massaoud, Rv. 263670) che sussiste quella del giudice italiano relativamente al delitto di trasporto e procurato ingresso illegale nel territorio dello Stato di cittadini extra-comunitari nella ipotesi in cui i migranti, provenienti dall’estero a bordo di navi “madre”, siano abbandonati in acque internazionali, su natanti inadeguati a raggiungere le coste italiane, allo scopo di provocare l’intervento dei soccorritori che li condurranno in territorio italiano, poichè la condotta di questi ultimi, che operano sotto la copertura della scriminante dello stato di necessità – espressamente richiamata nell’incipit del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 2 – è riconducibile alla figura dell’autore mediato di cui all’art. 54 c.p., comma 3, in quanto conseguente allo stato di pericolo volutamente provocato dai trafficanti, e si lega senza soluzione di continuità alle azioni poste in essere in ambito extraterritoriale (causa causae est causa causati: v. anche Sez. 1, n. 14510 del 28/02/2014, Haji Hassan). Nè varrebbe opporre l’operatività, rispetto ai soccorritori, di altra, in tesi prevalente, scriminante, quella dell’adempimento del dovere. Anche ad ammettere che l’intervento di salvataggio fosse doveroso, ai sensi delle convenzioni internazionali sul diritto del mare, nulla ciò toglierebbe al fatto che l’antecedente condotta illecita – posta in essere da chi, salpando dalle antistanti coste mediterranee, trasporta e abbandona i clandestini in acque extraterritoriali, facendo sì che le condotte ulteriori, incluso lo sbarco finale in Italia, siano riconducibili agli esiti del salvataggio medesimo – debba essere intesa come pianificazione complessiva, unitaria ed organica, che si caratterizza per l’elevato rischio fatto correre ai trasportati, opportunamente strumentalizzato al fine di provocare l’intervento dei servizi di soccorso in mare; intervento da ritenere pertanto un tassello essenziale e pianificato di una concatenazione articolata di atti, che non può essere interrotta o spezzata nella sua continuità, ponendosi in diretta derivazione causale rispetto all’azione criminale di abbandonare in mare le persone in attesa dei soccorsi (Sez. 1, n. 35474 del 29/04/2014, M.M.H.N.). Indipendentemente dall’effettiva contestazione dell’aggravante di cui all’art. 111 c.p. (determinazione a commettere il reato di soggetto non punibile), la responsabilità dello scafista non potrebbe in nessun caso essere disgiunta dal segmento di condotta che culmina con l’approdo in Italia, onde l’applicazione dell’art. 6 c.p. e l’affermazione della giurisdizione nazionale, che deve ritenersi in definitiva sempre configurabile (Sez. 1, n. 18354 del 11/03/2014, Hamada, Rv. 262542) allorchè il trasporto dei migranti, avvenuto in violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, sia stato accertato in acque extraterritoriali ma successivamente, nelle acque interne e sul territorio italiano, si siano verificati, quale evento del reato, l’ingresso e lo sbarco dei cittadini extracomunitari per l’intervento dei soccorritori, esito previsto e voluto a causa delle condizioni del natante, dell’eccessivo carico e delle condizioni del mare. Gli imputati ricorrenti negano di aver voluto un siffatto esito, proclamandosi indifferenti rispetto a quello che sarebbe potuto essere il luogo di sbarco, scelto autonomamente dai trasportati; e sostengono che – a fronte di reato che, ove esistente, si perfezionerebbe già con il compimento degli atti “diretti a procurare l’ingresso”, ossia di reato a consumazione anticipata – quest’ultima sarebbe al più avvenuta in acque internazionali. Quest’ultima tesi è in astratto errata, perchè, anche nei reati a consumazione anticipata – in cui la condotta di pericolo, già in sè punibile, sia tenuta fuori del nostro territorio – se qui se ne verifichino i voluti effetti tanto basta a radicare, dal lato dell’evento, la giurisdizione italiana ai sensi dell’art. 6 c.p. (Sez. 1, n. 11165 del 22/12/2015, dep. 2016, Almagasbi, Rv. 266430).
E la volontà, anzi la preordinazione, dell’evento è ciò che la sentenza impugnata accerta, con motivazione logica ed esauriente, anche facendo riferimento all’espresso diniego al trasbordo verso Malta, in via concorrente opposto dal comandante dell’imbarcazione alla deriva. Sostengono, infine, i ricorrenti che, stanti le condizioni dell’imbarcazione, l’arrivo in Italia, a prescindere dai soccorsi, non sarebbe mai potuto avvenire, onde essi non potrebbero rispondere di condotte in radice inidonee a determinarlo. A fronte di tale deduzione è agevole però constatare che la fattispecie di reato, in questo processo contestata e ritenuta, è in verità il “trasporto” illegale dei migranti, e non già il più generico compimento di “atti diretti a procurarne” l’ingresso illegale (che il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12 incrimina soltanto in via residuale); e l’integrazione del trasporto, dal lato oggettivo e soggettivo, non appare seriamente dubitabile.
2. Del pari manifestamente infondate sono le censure mosse, in punto di aggravanti ex D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, commi 3 e 3-bis, e di attenuanti generiche, per l’evidente logicità e completezza della motivazione sul loro rispettivo riconoscimento e diniego. Trattasi di motivazione che, sul primo punto, è contrastata da asserzioni generiche e meramente confutative, che sfuggono come tali all’apprezzamento di questa Corte; mentre, in ordine alle attenuanti ex art. 62-bis c.p., essa espone le ragioni preponderanti della decisione (con il richiamo alla gravità del reato, alla stimata capacità a delinquere, all’insipienza della tardiva collaborazione), non essendo viceversa richiesto la specifica valutazione di ciascuno dei pretesi elementi di favore indicati dalla difesa (da ultimo, Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
3. A tanto consegue (art. 606 c.p.p., comma 3) la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi; nonchè la condanna dei ricorrenti (art. 616 stesso codice) al pagamento delle spese processuali e, per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (Corte cost., sentenza n. 186 del 2000), di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare per ciascuno in duemila Euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 16 marzo 2018.
Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2018.